Onorevoli Colleghi! - Le norme di questo disegno di legge intervengono su più versanti:

          a) rendono più graduale, rispetto alla «riforma Maroni» del 2004, l'innalzamento dell'età richiesta per la pensione di anzianità che dovrebbe andare in vigore dal 2008, da cui deriverebbero cospicui risparmi di spesa connessi con il rinvio dei pensionamenti (in realtà questo provvedimento non determinerebbe una riduzione della spesa a regime: al minor numero di trattamenti derivante dall'innalzamento dell'età di pensionamento - la riduzione del periodo di permanenza nella condizione di pensionato determina una contrazione del numero dei trattamenti - corrisponderebbe un aumento dell'importo erogato prodotto dall'innalzamento del periodo di contribuzione);

          b) pospongono al 2010 l'aggiornamento dei coefficienti di trasformazione del montante dei contributi in rendita (che avrebbe già dovuto essere effettuato nel 2005) e riducono la cadenza (da un decennio a un triennio) per la loro revisione;

          c) introducono un limite minimo al grado di copertura (ovvero al rapporto tra trattamento di pensione e salario);

          d) apportano un aumento ai trattamenti di importo più contenuto, potenziano gli ammortizzatori sociali introducono innovazioni nel mercato del lavoro.

      Con riferimento al primo aspetto il provvedimento dispone, in luogo del brusco aumento a 60 anni dell'età prevista per la pensione di anzianità, un innalzamento graduale a 58 anni per i lavoratori dipendenti (59 per quelli autonomi) e 35 di contributi nel 2008 fino a 61 anni nel 2013 (62 per i lavoratori autonomi); nel contempo rende flessibile l'accesso al pensionamento subordinandolo al raggiungimento di quote determinate dalla somma dell'età e del periodo di contribuzione pari a 95 dal luglio 2009 (96 per i lavoratori autonomi) e crescenti sino a 97 nel 2013 (98 per i lavoratori autonomi).
      La maggiore gradualità nell'innalzamento dell'età necessaria per conseguire il diritto alla pensione di anzianità determina oneri ingenti (circa 7 miliardi di euro nell'arco del decennio 2008-2017). Sono inoltre previste esenzioni da questi limiti per i lavoratori che svolgono attività usuranti con aggravi di spesa di 3 miliardi.
      Il rinvio al 2010 dell'aggiornamento dei coefficienti di trasformazione determina oneri aggiuntivi per il sistema pensionistico rispetto a quelli previsti in base alla
normativa vigente (che prevedeva la sua applicazione dal 2005). La riduzione da dieci a tre anni della cadenza stabilita per la revisione dei coefficienti è invece da apprezzare in quanto riduce lo sfasamento temporale intercorrente tra il momento dell'innalzamento della speranza di vita e quello dell'adeguamento della rendita da circa quattordici anni (dieci anni, effetto della cadenza della revisione, e quattro anni occorrenti per la redazione delle tavole di mortalità) a circa sette (risultato della nuova cadenza e dei tempi di elaborazione delle tavole pari, come accennato, a quattro anni). Questa modifica non appare tuttavia sufficiente ad assicurare l'equilibrio tra prestazioni e contributi che rischia di essere compromesso dal continuo innalzamento della speranza di vita non adeguatamente e prontamente colto dai meccanismi attualmente previsti per la revisione dei coefficienti di trasformazione sia per la scarsa tempestività (sette anni: un triennio, riferibile alla cadenza cui si aggiungono i tempi per la redazione delle tavole di mortalità) sia per l'inadeguatezza degli strumenti utilizzati (tavole di mortalità per individui contemporanei, piuttosto che per generazioni, che sottostimano

 

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l'effettivo innalzamento della speranza di vita dei pensionati).
      Il provvedimento non modifica i parametri attuariali utilizzati per la rivalutazione dei contributi e per la liquidazione della rendita previsti dalla «riforma Dini» che costituiscono la principale causa del prevedibile squilibrio che in prospettiva si determinerà tra prestazioni e contributi. Il parametro utilizzato per la rivalutazione dei versamenti contributivi, cioè l'aumento del prodotto, ingloba anche l'aumento dell'occupazione, al quale in prospettiva corrisponderà un aumento dei pensionati.
      Le nuove norme inserite nel provvedimento prevedono inoltre politiche attive che favoriscano il raggiungimento di un tasso di sostituzione (ovvero di un rapporto tra trattamento di pensione e salario) non inferiore, al netto della fiscalità, al 60 per cento (con riferimento all'aliquota prevista per i lavoratori dipendenti). L'introduzione di questo limite minimo mina alla base il principio (teorico) della corrispondenza tra contributi e prestazioni introdotto con la riforma del 1995 (la pensione dovrebbe infatti essere commisurata ai contributi versati secondo una stretta equivalenza attuariale).
      Il provvedimento contiene altresì un insieme di misure dirette a elevare le pensioni di importo più contenuto e a potenziare gli ammortizzatori sociali. Queste norme nell'attuale contesto di difficoltà di gran parte delle famiglie sono da condividere.
      Il finanziamento delle maggiori spese è affidato fondamentalmente ai risparmi connessi con la razionalizzazione del sistema degli enti di previdenza da cui dovrebbero scaturire economie per 3,5 miliardi di euro nell'arco del decennio (i cui effetti sono dubbi). È inoltre prevista l'elevazione dell'aliquota contributiva riguardante i lavoratori iscritti all'assicurazione generale obbligatoria dello 0,09 per cento a decorrere dal 2011.
      Vengono inoltre disposti: a) limitatamente alle pensioni di importo superiore a otto volte la pensione minima dell'INPS (cioè i trattamenti di importo superiore a 3500 euro mensili) il mancato riconoscimento dell'adeguamento al costo della vita dovuto per il 2008 (intervento di dubbia costituzionalità, in quanto assimilabile a una forma di tassazione che incide su una specifica categoria di redditieri); b) l'armonizzazione dei fondi speciali. Da questi due interventi dovrebbero derivare risparmi per oltre 2 miliardi.
      Vengono infine disposti aumenti delle aliquote contributive per i lavoratori subordinati da cui dovrebbero derivare risorse aggiuntive per 4,4 miliardi, cui nel lungo periodo corrisponderebbero tuttavia aumenti dei trattamenti da erogare in loro favore.
      Nel complesso il provvedimento a regime rispetto alla «riforma Maroni» innalza l'età di pensionamento per anzianità ma rinvia nel tempo l'aumento, determinando nei prossimi anni oneri ingenti in larga misura coperti con il ricorso ad aumenti delle entrate o a provvedimenti assimilabili (il mancato adeguamento all'inflazione dei trattamenti di importo più elevato). Il provvedimento incide solamente in misura molto limitata sui fattori di squilibrio del sistema pensionistico (essenzialmente adeguamento ritardato e parziale dei trattamenti all'allungamento della speranza di vita dei pensionati e utilizzo di parametri inappropriati nella rivalutazione dei contributi versati e nel calcolo delle rendite da erogare).
      Nelle attuali condizioni della nostra economia sarebbe stato molto più utile destinare le risorse reperite per ritardare l'innalzamento dell'età di pensionamento per anzianità all'ammodernamento del sistema produttivo, alla ricerca e allo sviluppo, nonché a un'azione più incisiva rispetto a quella prevista nel provvedimento sulla formazione del capitale umano, interventi tutti indispensabili per rafforzare le prospettive di crescita da cui scaturirebbero riflessi positivi sui conti pubblici.
 

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